“La comunicazione commerciale deve essere onesta, veritiera e corretta. Essa deve evitare tutto ciò che possa screditarla”. Così recita l’art. 1 del Codice di Autodisciplina della comunicazione commerciale, redatto dallo IAP, ossia l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria (soggetto privato operante nei confronti dei soli associati e avente la facoltà di bloccare eventuali campagne pubblicitarie “scorrette” per tutelare i consumatori).
Questa soluzione, adottata dalle aziende che nel nostro Paese hanno a che fare con la comunicazione in tutte le sue forme o che hanno sottoscritto all’interno di un contratto una clausola di accettazione del codice e delle sue previsioni, ha il fine di garantire agli utenti dei social networks trasparenza e veridicità nelle informazioni acquisite.
Se è vero infatti che ad oggi la cura della visibilità online di un’azienda è diventata di centrale importanza (si veda la presenza massiccia di molti brand su social networks quali Instagram), altrettanto vero è che i social media possono essere usati quali strumenti per realizzare una campagna pubblicitaria a patto che questa non sia in alcun modo “nascosta” agli utenti e che non violi i diritti degli operatori che partecipano alla stessa (brand, influencer, fotografi, ecc.).
Un’ipotesi, analizzata in precedenza su questo blog, riguarda i c.d. “influencers” che – nel pubblicare “post” sui propri profili – “tagghino” il marchio sponsorizzato, attirando “likes” e l’attenzione dei “followers”, senza tuttavia specificare come tale post abbia un fine pubblicitario e di promozione del brand in questione.
Per quanto qui interessa, uno degli aspetti legati alla sfumata disciplina del digital marketing riguarda in particolare il copyright (“diritto di copia”) e l’utilizzo non autorizzato o inappropriato di alcune immagini legate ad un marchio (si veda il caso Ferrari affrontato su questo blog) o ad un influencer.
Nell’ordinamento italiano, i diritti della foto pubblicata appartengono infatti al suo autore (generalmente fotografi o paparazzi nel campo fashion industry), come previsto dall’art. 12 della legge 633/1941 sul diritto d’autore, e la paternità dell’opera è facilmente dimostrabile se depositata presso la SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori).
L’autore dispone inoltre, secondo l’art. 18 della stessa legge, della facoltà di operare qualsiasi modificazione, elaborazione e/o trasformazione dell’opera, permettendo dunque una tutela specifica dell’origine dell’opera e della facoltà del suo autore di disporne come ritenga opportuno.
Venendo al caso specifico del copyright, va tuttavia sottolineato come tale disciplina venga affrontata in maniera diversa a seconda dell’ordinamento considerato: in Italia, questa viene trattata essenzialmente come sinonimo del diritto d’autore, mentre ad esempio negli Stati Uniti il copyright viene considerato un diritto federale che consente a chi si sia distinto per la realizzazione di opere originali di tutelarsi rispetto alla loro distribuzione, riproduzione o esibizione, costituendo dunque una tutela di tipo economico che non necessita di alcun deposito, ma che anzi sorge con la semplice cattura dell’immagine.
Il consiglio per le aziende operanti nella moda, al fine di tutelarsi da un’accusa di violazione di copyright, è dunque quello di ottenere il consenso dell’autore originario tramite un regolare rapporto di cessione o tramite una specifica clausola contrattuale tra brand e fotografi.
Luca Davini
Avvocato in Milano e Torino
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